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Ci vuole coraggio.

Dobbiamo ammettere che a un aumento mondiale della produzione e consumo bio non corrisponde quel progresso sociale e ambientale che ci attendevamo. La forte pressione produttiva e quantitativa sulle terre più performanti, insieme al cambiamento climatico e le guerre che affliggono mezzo pianeta, hanno messo fuori mercato milioni di contadini e intere aree geografiche che con la pianura e l’agricoltura industrializzata non possono competere.

Nella seconda metà degli anni 70, dopo il ’77 per lo più, nel nostro paese si formarono spontaneamente oltre cento cooperative agricole di giovani, nessuno dei quali veniva dalla campagna.
Ci chiamavamo “cooperative alternative”. Per i giovani di allora, allevatori di lombrichi, pecore, capre e galline, apicoltori e agricoltori che tornavano alla terra per viverci e coltivarla senza veleni, si trattava di una sfida diretta a un modello non solo agricolo, contrapponendo un’idea di lavoro e di società, una funzione del cibo e di coabitazione con la natura in aperto contrasto con quella dominante ai tempi.
 
Sono passati 40 anni, uno spazio decisamente lontano: il treno Milano Roma impiegava oltre 8 ore, le lettere si scrivevano e imbucavano a mano e per fare copie economiche di documenti si usava il ciclostile (termine che i più non conoscono). La grande distribuzione non esisteva, i negozi Coop dove presenti erano più vicini a spacci di beni di prima necessità. Le multinazionali erano più conosciute per i volantini delle Brigate Rosse che per una presenza pervasiva ed influente come oggi.
 
Il biologico è stato dileggiato per decenni e rappresentato come primitivo e ritorno al passato, spesso ridicolizzato. Fino a che sull’onda di una giusta pressione ed attenzione, molti hanno preso coscienza del fatto che il cibo è importante per la salute dell’uomo e dell’ambiente.
 
Ma se questo è, pure al netto degli attacchi all’arma bianca della professoressa Elena Cattaneo che brandisce la sua scienza priva di dubbi come una clava, questo importante spostamento di opinione su ciò che noi mangiamo e da dove deriva e come viene fatto il cibo che entra dentro di noi, ha veramente implicato anche la modifica dei contesti produttivi e in generale portato sollievo al pianeta e a chi lo abita in modo significativo?
 
Al contrario negli ultimi 40 anni siamo stati i protagonisti spesso passivi della massima concentrazione e verticalizzazione dell’impresa manifatturiera come di quella finanziaria, dei mezzi di produzione come di quelli di distribuzione. Della proprietà dei semi, della terra come del suo consumo. Del gigantismo degli allevamenti come quello della trasformazione della carne, uniti insieme da un processo super-industrializzato, privo di qualunque rispetto etico ed etologico degli animali. E dei consumatori della relativa carne a buon mercato.
 
Biologico non è solo una ricetta da applicare a uno stanco e insoddisfacente modello produttivo convenzionale; non è solo l’applicazione di determinati prodotti autorizzati al posto di fertilizzanti e pesticidi di sintesi, oppure nutrire le vacche con soia e mais biologico al posto di quello ogm, entrambi provenienti da molto lontano.
 
Dobbiamo ammettere che ad un aumento mondiale della produzione e consumo bio non corrisponde quel progresso sociale ed ambientale che ci attendevamo. La forte pressione produttiva e quantitativa sulle terre più performanti insieme al cambiamento climatico e le guerre che affliggono mezzo pianeta, hanno messo fuori mercato milioni di contadini e intere aree geografiche che con la pianura e l’agricoltura industrializzata non possono competere. I proprietari dei mezzi di produzione come di quelli della distribuzione sono sempre meno, più concentrati e più potenti. Agricoltori e contadini si ritrovano sempre più dipendenti da un sistema politico locale e mondiale che ne ha ridotto autonomia e libertà.
Il biologico non è solo una pratica agricola, non è accodamento né accomodamento ad una moda di mercato a meno di non rinnegare le sue promesse. La sua cifra è la biodiversità che si esprime sul piano agricolo, ambientale e sociale: nessuno escluso.
Il biologico, quello vero, è rispetto ed inno alla vita. Prima di diventare mercato, materia di marketing, strategia di diversificazione produttiva per le grandi aziende, il biologico è promessa di relazione fra la natura e l’umanità e tensione verso l’equilibrio che è equità: il biologico opera nella reciprocità e non sulla sottrazione ed estrazione di valore dai territori e dalle persone.
 
Se lo si spoglia della sua funzione sociale, della sua dimensione comunitaria, dell’amicizia ed empatia che richiede, dello sforzo di coerenza che impone perde significato.
 
Se la sfida è un rapporto diverso con la natura ed il vivente che la rende straordinaria, aiutare e proteggere la bio-diversità non è solo un fatto agricolo, ma visione sociale e progressiva : alla terra ed al mondo bisogna voler bene!
 
Ci vuole coraggio per vedere ed affrontare con forza (e non lasciare alla passività di questo tempo) alcune delle grandi sfide che competono ad una agricoltura che porti vita e benessere:
 
1) Servono politiche per restituire alla terra il suo valore di opportunità per milioni di persone, affinchè possano essere ri-abitate, ri-vitalizzate, produrre cibo buono e sano, rappresentare possibilità di lavoro ricco di senso. Troppe sono le terre in abbandono o silenti, senza agricoltori non solo che le coltivino ma che le vivano e le custodiscano.
 
2) Il latte deve tornare a provenire dal fieno e dai pascoli e non da cereali e legumi. Le razze bovine recuperate ad un ruolo importante e funzionale per l’agrosistema, fuori da una iperselezione produttivistica che le ha trasformate in stanche e pigre macchine. Le stalle ad essere compatibili con l’etologia animale ed un loro benessere sostanziale. E questo deve riguardare tutti gli allevamenti animali, a partire da quelli che hanno subito la più dura trasformazione industriale.
 
3) I semi devono tornare liberi e plurimi e adattati alle diverse latitudini e climi. L’accaparramento dei semi e la loro di fatto privatizzazione e riduzione nel numero non solo da parte delle multinazionali è segno non di collaborazione ma di sottomissione del mondo agricolo. L’imposizione e dipendenza di oggi dei contadini verso questo sistema sempre più diffuso, spegne libertà e biodiversità. Spegne la speranza di fare un lavoro utile e libero per le persone e la società.
 
4) Le grandi fabbriche alimentari ancora centrate sulle economie di scala devono lasciare il posto a “fabbriche diffuse”, ovvero impianti di grande tecnologia ma ridotta dimensione, vicini alle specificità di prodotto e che portano valore ai territori: è tempo che il cibo nutra in primis le persone del suo territorio più vicino. Solo così si può rigenerare conoscenza e vicinanza, una campagna ricca , di servizio e scambio con la città ed i suoi abitanti.
 
“Ci vuole coraggio per diventare liberi.“  Pericle V secolo A.C.