Lei è food writer e comunicatore del cibo. In che modo pensa si possa, dopo questa pausa forzata di riflessione a tutto tondo, affrontare il tema di scambio tra l’urbano e il rurale? Chi vive in città può contribuire a un dialogo anche fisico con chi vive nei luoghi più o meno remoti a rischio di abbandono? Il cibo in che modo potrebbe ritornare ad essere oggetto di scambio vero tra chi vive in città e chi vive in campagna?
Parlare di campagna è un po’ vago. Di nuovo mi riferisco alla campagna, pascoli, alture dove fare il contadino, pastore, artigiano del cibo è dura.
Sappiamo quanto il cibo sia un apparato densamente significante. Con il cibo e per il cibo regoliamo le vite di popoli interi. Il cibo può essere strumento di diplomazia quanto di conflitto. Quello che mi chiedi penso non sia soltanto una questione di cibo, quanto piuttosto dello stile di vita di cui il cibo fa parte. Chi ha un rapporto con le aree extraurbane, con la campagna ha già sviluppato dentro di sé quella vicinanza unica e necessaria con i fili d’erba, le foglie, i tronchi degli alberi, le galline e il fiato delle mucche.
Portare le persone a volgere lo sguardo verso la natura è un’operazione ben più vasta che merita attenzione progettuale. Al suo interno c’è anche il cibo in forma predominante. Voglio dire che il cibo staccato dalla propria vita non è concepibile.
Fare una vita altamente urbana, vivere i ritmi dell’iperconnessione e affidare nel contempo la propria salvezza alla zucchina biodinamica, è un goffo tentativo di risolvere la propria vita. Il cibo può essere un efficace dispositivo di ripensamento, in un contesto di coerenza. Certo non sto auspicando una de-urbanizzazione a favore di un affollamento delle campagne ma sapere che mi ci posso rivolgere più spesso, questo sì. E’ un rapporto liberatorio e ricostituente oltre che nobile e necessario.
Per rispondere alla considerazione “fare il contadino è dura”, dipende dal contadino e dalle sue necessità, competenze e dai suoi traguardi. Sarebbe bello se ci comportassimo come il colibrì della favola che cerca di spegnere l’incendio divampato nella foresta con una goccia d’acqua alla volta. Dovremmo sforzarci di fare dei passaggi importanti nella comprensione del mondo che stiamo vivendo. Fare la spesa, mangiare correttamente, acquisire comportamenti consapevoli non sempre è semplice per diversi motivi che hanno a che fare con l’accesso sia questo economico, logistico, politico, di comunicazione, di educazione civile. In un documentario americano, ho visto una famiglia messicana che ogni giorno doveva decidere se acquistare frutta e verdura o piuttosto un hamburger da mangiare subito. A parità di costo, la scelta ovviamente ricadeva sul fast food. Ogni giorno.
Penso spesso che il tema delle terre piccole, scomode, appenniniche o solo fuori porta sia un tema che nasconde l’esclusione. Ieri ho avuto uno scambio con Pippo del Bono che diceva “ la terra deve essere di tutti” E sappiamo che così non è.
Basta pensare ai popoli nativi continuamente sotto minaccia. Penso che anche i nostri contadini siano un po’ dei popoli nativi. Resistono e in modo generoso svolgono un ruolo di custodi della terra che nessuno li riconosce.
Che cosa ne pensi? Che cosa possiamo fare per sostenerli concretamente?
Questo è un pensiero romantico e si addice alla fascia di sognatori di cui entrambi facciamo parte. La realtà dei fatti è molto diversa, purtroppo. Le industrie della produzione di cibo, la GDO e le politiche economiche non lasciano spazio alle utopie. Viviamo nel nostro tempo. Ma i tempi stanno cambiando. Quello che vedo nel mio sogno è proprio una riconversione in cui innovazione significa fare tesoro dei propri errori e procedere operando le scelte opportune. Per il post Covid si sta immaginando, ovunque, un sistema di “undertourism” e dunque di micro destinazioni con caratteri fortemente identitari che esprimono unicità e bellezza.
I contadini, come tutti al mondo, saranno costretti a non basare più il proprio futuro su ciò che già conoscono ma dovranno acquisire nuove conoscenze, nuovi parametri per scoprire nuove opportunità e, secondo me, l’unione, l’incontro tra le comunità rurali e il turismo, sebbene già avanzato come processo, offre ancora delle opportunità interessanti. In fondo sostengo da anni che i contadini saranno i maggiori innovatori di questo secolo e questo è il momento giusto per dimostrarlo.
Intervista realizzata da Rita Brugnara, maggio 2020