Lei, responsabile editoriale di Cook, mette insieme, avvicina, intreccia le storie che hanno a che fare con il cibo. I protagonisti sono i grandi chef, chi fa il pane artigianalmente, chi il vino. E sappiamo essere storie che iniziano e condividono un rapporto, più o meno sotteso, con la terra. Il rapporto stretto o lontano è il frutto di una scelta. Nel numero di Cook di aprile lei dice che per ricominciare ci vuole molta immaginazione e io sono d’accordo con lei. Secondo lei, la nuova convivialità (che si caratterizza per includere la distanza di sicurezza), potrà avere come effetto secondario, una nuova relazione con la campagna? Non penso solo alla relazione con gli agricoltori che producono le materie prime, ma al rurale come luogo dove spostare una convivialità, se non più libera, compensata dalla natura e dall’appagamento di quella parte ‘selvaggia’ che è dentro di noi.
Con Cook ci siamo immaginati di raccontare il cibo nel suo insieme. Nella sua totalità e complessità, anche culturale. Quando scegliamo uno chef l’obiettivo è di scandagliare tutta la sua vita. Che si divide tra il lavoro nel ristorante, ovviamente, e il rapporto con i suoi fornitori. Un rapporto fondamentale. Soprattutto in questo periodo storico in cui è diventato ancora più evidente, se già non lo era abbastanza, che cuochi e ristoratori sono un tassello di un ingranaggio molto complesso e sfaccettato che è la filiera alimentare. Ecco, chi è stato capace di costruire attorno a sé una rete forte avrà più strumenti per affrontare questo futuro incerto. Difficile, se vogliamo, da immaginare ma essenziale da costruire con basi forti. Penso ai panificatori agricoli urbani, ad esempio. In tempi non sospetti questo gruppo di fornai (che vede a capo Longoni, Polito e Piffer) hanno costruito le loro imprese partendo dalla relazione con la campagna. Un lavoro lungo e complesso che ha messo al centro la materia prima per poi portarla in città, fulcro delle relazioni e degli scambi. Ecco, se vogliamo, questo loro modello esemplifica bene quale dev’essere il rapporto sano e costruttivo che chi lavora in questo campo deve avere con la natura.
Il Covid 19 ha offerto a tutti l’esperienza del tempo dilatato e con questo la scoperta per molti di noi di riti prima sconosciuti: fare il pane con o senza pasta madre, consultare ricette per rendere più felice la tavola o la solitudine e altro ancora. Lei pensa che questa esperienza abbia portato le persone a riflettere sull’essenza profonda della cucina come atto sociale. La suggestione è dello chef Fulvio Pierangeli ma semplificando, lei pensa che la manipolazione del cibo in tantissime cucine italiane abbia rivelato, fatto scoprire la differenza tra commodity e cibo vero?
Il potere del cibo sta proprio nella sua funzione sociale. Per festeggiare traguardi importanti decidiamo di sederci tutti insieme a tavola. Per esprimere affetto, spesso, decidiamo di cucinare un piatto speciale. Penso però anche che in questo momento il cibo abbia ricoperto un altro ruolo fondamentale, sia riuscito a distogliere l’attenzione dal reale e farci allontanare, seppur per qualche ora, dalla situazione terribile che stiamo e stavamo vivendo. Non a caso il concetto del procrastibaking è esploso in questo periodo. Tutti abbiamo capito che con la cucina eravamo in grado di allontanare l’ansia. E anzi, sembra che aiuti il flusso creativo, perché mette in ordine idee e parole. D’altronde, la poetessa Grace Paley scriveva: «Stavo per scrivere una poesia, invece ho fatto una torta: mi ci è voluta circa la stessa quantità di tempo . Ma ovviamente la torta era finita in pochissimo, mentre una poesia avrebbe avuto un po’ di distanza da percorrere e molta carta stropicciata da consumare». Basta provarci, per riscoprire anche il valore del cibo.
Intervista realizzata da Rita Brugnara, maggio 2020
Foto: www.cucinalabri.it