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Good Land + People. Idee per nutrire il cambiamento.

Intervista a Giuseppe Civati, cofondatore della casa editrice People, già deputato e segretario di Possibile, saggista e blogger.

Nella tua presentazione della collaborazione appena nata tra People e Good Land metti in relazione la voglia di cambiamento con l’attenzione al non perdere tempo. Che cosa comporta perdere tempo?
 
Il tempo in verità è già scaduto. E scade, potremmo dire, ogni giorno che passa, nel disinteresse generale. Soprattutto della politica, che invece dovrebbe intestarsi questa questione come la questione della nostra generazione, per dirla con AOC.
 

Timothy Morton, filosofo inglese, nel suo libro dal titolo Iperoggetti afferma: “L’iperoggetto per eccellenza è proprio il riscaldamento globale, la cui caratteristica principale è quella di esistere su dimensioni spazio-temporale troppo grandi perché possa essere visto o percepito in modo diretto”. Come possiamo essere efficaci nel comunicare un fenomeno talmente grande da non essere percepito?

 
Credo che il nostro problema sia anche un altro, quello del nostro provincialismo e della nostra profonda ignoranza di come va il mondo. È sparito, il mondo, dal nostro dibattito pubblico, non c’è più, come se potessimo farne a meno. Come se non ci riguardasse. Quasi che la nostra penisola si staccasse e andasse alla deriva, in un non-luogo, per adottare una suggestione di Saramago di tanti anni fa.
 
Secondo te potrebbe essere utile utilizzare, realizzare un vocabolario comune di People e Good Land alla base di azioni di cambiamento che condividiamo? People fa cultura, Good Land fa colture, produce cibo.
 
Potrebbe essere un elenco di parole che hanno il senso dell’interconnessione. Ho molto apprezzato la vostra idea di abbinare la cultura alla produzione di cibo perché per troppo tempo abbiamo separato i concetti, i valori, i punti di vista. L’essere interdisciplinari ci da vantaggio.
 
Un elenco di parole comprensibile a tutti e inequivocabile. Ho letto tempo fa un articolo molto interessante su the Guardian che metteva in luce come siano pochissime le persone che comprendono il termine biodiversità, che è l’altra faccia della medaglia del riscaldamento globale.
 
Il problema, hai ragione, è culturale. Prima ancora che ambientale o politico, nel senso stretto. Le parole sono negate. La curiosità per ciò che non è qui e ora, per ciò che non ci tocca direttamente, è azzerata. Noi stiamo tentando, senza presunzione, di alfabetizzare una popolazione intera. Ossigeno, la nostra rivista, i libri che facciamo, hanno a cuore le parole, i non detti, le omissioni, che denunciano puntualmente. Lo stesso mi pare faccia Good Land, cercando territori inesplorati, anche se sono a centinaia di metri da casa nostra, nelle aree interne di un paese che si è dimenticato di parte di sé, nel progettare quel futuro che non vediamo. Thomas Steam Eliot diceva che c’è un provincialismo anche nel tempo. Good Land lo ha capito e ribaltato.
 
Quanto è importante per te fare rete, in questo caso fare rete con Good Land?
 
È decisivo. Ed è la nostra unica possibilità di salvezza. Quando Enea scappa da Troia in fiamme con suo papà, che all’inizio non voleva nemmeno partire, gli dice: uno è il pericolo, una è la via di salvezza. E la dobbiamo condividere, nella ricerca, prima di tutto, a ogni livello. Rete di reti, cultura e scienza e finalmente la politica.
 
Intervista realizzata da Rita Brugnara, maggio 2021

Foto di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, Disboscamento, Vancouver Island, Canada (fotogramma), 2018