La Terra è femminea, non solo perché generatrice ma perché tutto quello che la riguarda e che da lei dipende ne possiede i caratteri.
Sorellanza, in senso molto orizzontale, è forse la sua condizione con tutte le forme e gli elementi che accoglie.
Ci vogliono secoli per creare 2 centimetri di terra, dalla lenta degradazione di rocce, foglie, decomposizione vegetale e animale. E acqua.
La terra non solo è viva, ovvero costituita da miliardi di piccole forme viventi che la rendono attiva, viva appunto (nei primi 10 centimetri vive il 60% delle specie viventi del pianeta) ma è possibile considerarla un organismo vivente e come tale portarle rispetto poiché a sua volta dà, o meno, vita.
Il suo dominio, forma patriarcale ancora vigente, l’ha ridotta e trasformata in strumento silente e spesso inattivato.
E con la terra le forme viventi, vegetali e animali che la popolavano e che ora spesso sopravvivono solo lo stretto necessario a una unica funzione: cibo manipolato per una unica specie, la nostra.
Questa nuova consapevolezza necessita pratica e concretezza. Se la terra è un organismo vivo e che da vita, il nostro approccio non può essere mirato alla produzione soltanto ma innanzitutto alla riproduzione, ovvero alle condizioni di riproduzione e rigenerazione della terra, come forma vivente. E lo stesso riguarda gli animali che da noi dipendono.
Vi è una funzione del cibo che va molto oltre la nutrizione ed è la relazione: è attraverso il cibo che si realizza la relazione con il vivente, con la terra e con gli animali e vegetali. Che diamo (o non diamo) senso e salubrità non solo al nostro corpo ma al nostro stare e trarre beneficio dalla Vita.
Vi è una violenza dominatoria nella conduzione patriarcale della terra e degli allevamenti intensivi che giunge nei riguardi di quest’ultima a divenire guerresca.
Tutto ciò allontana e ci rende estranei da quella fitta rete di relazioni che invece abbiamo – anche se non lo riconosciamo più – con l’ambiente, l’ossigeno e l’acqua pulita, con tutto il mondo vegetale e animale di questo pianeta.
La moderna agricoltura da conflittiva con l’ambiente naturale spesso distrugge; invece quando è curata, ovvero innanzitutto rigenerata e non solo per noi umani, a sua volta cura.
Noi siamo per una per una agricoltura che cura.
Che ci cura.
Un campo che cura è un campo che invita, che non prevede solo le specie coltivate ma spazi, piante ed acque dove la diversità del vivente possa trovare spazio e quindi accogliere.
Ospitare e dare piacere oltre ad avvicinare e anche insegnare.
Frequentare i campi coltivati, che includono la diversità e poco oltre anche la più spontanea biodiversità. Sono i nuovi Parchi Agricoli ai quali ci ispiriamo, luoghi di relazione e non solo di produzione, di conoscenza e di avvicinamento non turistico/consumistico ma amicale e culturale, che potranno fornire più cibo con senso alle persone che vi si avvicinano.
Una nuova concezione del fare agricoltura: come le donne e uomini che coltivano il riso a Rovasenda che hanno diviso a metà i loro campi di riso per piantarci alberi e scavare fossi trasformandoli in giardini permanenti, come gli orticoltori di montagna del Comelico e quelli dell’Appennino bolognese che incrociano i loro ortaggi combinando nuove sinergie, come i tulipani nel mezzo della Capitanata che riempiono di colori oltre che di vita chi li va a raccogliere. Come le capre e le mucche e le pecore di molte nostre montagne riportate finalmente libere al pascolo, da parte di allevatori che rinunciano ad una genetica esasperata quanto suicida per restituire vita e partecipazione.
A territori che diventano comunità.
Il loro cibo cura ma cura ancora di più il loro campo aperto e sempre nuovo come nuova la vita che avvolge.
La terra è femminea
Se la terra è un organismo vivo e che da vita, il nostro approccio non può essere mirato soltanto alla produzione ma piuttosto alla riproduzione, ovvero alle condizioni di riproduzione e rigenerazione della terra, come forma vivente.
