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Rivitalizzare il Mediterraneo, ri-abitare le sue terre.

Una terra importante e straordinaria come il nostro Mediterraneo potrebbe diventare un centro strategico, reale sostegno a una ecologia e naturalità straordinarie quanto delicate nel loro equilibrio.

Non è raro trovare sui banchi dei supermercati tedeschi e del nord Europa frutta e verdura fresca e confezionata ad un prezzo inferiore che in Italia, che pure ne è paese fra i primi produttori mondiali. Prezzi molto bassi come per le banane che ne sono un buon esempio e conosciamo bene le colossali macchine di sfruttamento di persone, terre e territori in Latino America e Africa che consentono di collocarle nei grandi mercati all’ingrosso anche sotto i 25 centesimi di euro al kg.
Le due sponde del Mediterraneo quella nord rappresentata dal sud Europa e quella sud ovvero nordafricana ma anche quella medio orientale sono i grandi fornitori di verdure ortaggi e frutta a tutto il nord Europa e non solo.
 
In particolare in questa area geografica sono diffuse forme di lavoro precario, di lavoro nero, spesso vero e proprio lavoro schiavo come conseguenza a una imposta competitività di prezzo, esasperata dalle diverse agricolture praticate e condizioni economiche di paesi molto diversi, che operano in un territorio così vasto.
Il tema del lavoro agricolo fuori da qualunque regola sindacale e norme di legge, quelle quantomeno previste in Europa, è oggetto di studio e analisi molto frustranti per la difficoltà a raccogliere dati, informazioni, studi a riguardo trattandosi di un’area, quella del lavoro illegale, per definizione clandestina e per nulla trasparente.
Francesco Carchedi, professore di sociologia alla Sapienza di Roma che redige da anni il dossier sul caporalato per la federazione dei lavoratori agroalimentari della CGIL, si muove con fatica cercando numeri, dalla Tunisia al Marocco alla Spagna e ovvio nel nostro paese: si possono stimare in 800.000, forse 1.000.000 nella sola Europa i lavoratori, non solo immigrati, che lavorano senza regole se non quelle imposte dai caporali di ogni paese. Dalle indagini della magistratura in più paesi e dal presidio del territorio sappiamo che un’ora media di lavoro è pagata in Europa 3 euro lordi che fanno 30 euro per una giornata lavorativa di 10 ore. Mentre sull’altra sponda del Mediterraneo la tariffa oraria scende a 1 euro, 0.70 all’ora.
Yvan Sagnet, giovane e combattivo presidente dell’associazione internazionale No Cap, no al caporalato,afferma spesso provocatoriamente: “sappiamo chi sono e cosa fanno i caporali , ma chi sono i generali questo è taciuto”.
I generali purtroppo sono tutte le figure che compongono quei mercati – compresi i consumatori finali – del centro e nord Europa che spremono l’ultimo prezzo, quello più basso possibile in una spirale senza fine, dei prodotti agricoli e che quindi diventano indirettamente complici di una desertificazione di fatto di diritti sociali ma anche di terra e territori che per aumentare la produttività si esauriscono in termini di fertilità e biodiversità.
 
Non solo: l’esasperazione del prezzo, in un settore fragile come quello agricolo, così come l’esaurimento della generosa fertilità dei nostri suoli formatasi in milioni di anni e consumati in pochissimi decenni, allontana dalle campagne sempre più agricoltori, gestori magari di pochi ettari di terra ma indispensabili custodi del territorio, tornando a ricostituire giganteschi latifondi coltivati industrialmente e non più abitati.
E lo stesso vale per i pescatori.
Decenni di crisi del settore agricolo non hanno diminuito né il numero dei supermercati né le spese per il marketing, ma hanno ridotto di molto i diritti di chi lavora e insieme la naturale ricchezza del Mediterraneo.
Si chiama estrazione senza ricompensa, unfair exchange.
 
La conversione di questo sistema malato si misura con il tasso di rivitalizzazione del Mediterraneo che non può che passare attraverso una vera e propria riparazione del suo ruolo e della sua funzione. Che non può essere quella dell’estrazione di gas e petrolio che, come la competizione estrema di prezzo, porterà solo guerre ed emigrazioni.
 
Riabitare queste terre significa restituire loro il valore delle produzioni agroalimentari che comprendono il costo del lavoro non come variabile sacrificabile, il valore del sostentamento del territorio, il valore di una funzione che, come reclama la storia e il ruolo, è quella di essere terra di mezzo e quindi di incontro.
 
Il digitale, con il suo trasferimento e scambio di know how, potrebbe essere la chiave per la creazione di piccole fabbriche diffuse sui territori ad altissimo contenuto tecnologico in grado di mantenere in loco il valore aggiunto della trasformazione di produzioni agroalimentari formidabili, anzi valorizzarlo ancora di più, lontano dalle omogeneizzazioni e standardizzazioni richieste dalla grande industria concentratrice e spesso monopolista.
 
Una terra importante e straordinaria come il nostro Mediterraneo potrebbe diventare il centro strategico, il baricentro di un’unità di intenti generata dal basso e da soggetti attivi (non destinatari passivi) mirata a ricreare sviluppo economico e sociale compatibile e veramente di sostegno a una ecologia e naturalità straordinarie quanto delicate nel loro equilibrio. Mirata ad avvicinare culture ed economie partendo da ciò che abbiamo in comune e che istintivamente e immediatamente rende, nella vicinanza del sole e pregnanza dei colori di questa terra, amici.
Del resto sono state trovate recentemente tracce di farina macinata da grani spontanei progenitori del nostro farro in una grotta della Galilea datate 26.000 anni fa. E lo stesso nella Puglia salentina e murgese datate 15/17.000 anni or sono.
Molto prima della nascita dell’agricoltura, le nostre genti facevano pane, c’è da scommetterci che lo mangiavano con olio d’oliva e erbe di campo.
Il mandorlo, che i greci dell’antichità chiamavano pianta madre forniva il primo alimento dopo il latte materno e con una straordinaria ricchezza di scambi è cresciuta la diversificazione delle nostre civiltà, debitorie di questa terra di mezzo: Mediterraneo appunto.

di Lucio Cavazzoni